Emulare i campioni è positivo: 4 chiacchiere con lo Zio Bergomi!
Una vita passata con la maglia dell’Inter dal 1977 al 1999, dalle giovanili fino a diventare una delle ultime bandiere rimaste nella storia del calcio insieme a Totti e Maldini, collezionando 519 presenze tra campionato e Coppe, ma Beppe Bergomi non è solo questo. Dopo poco è cominciata l’altra carriera che tutt’ora lo vede ad alti livelli, quella da commentatore Sky come coppia fissa con Fabio Caressa, così da reinventarsi a modo suo ancora leggenda. Lo abbiamo intervistato in esclusiva, cominciando facendoci raccontare il perché del soprannome con cui ancora oggi viene spesso apostrofato: Zio!
“Mi ha soprannominato così Gianpiero Marini, ex mediano dell’Inter di cui ero da poco compagno. Io avevo 16 anni e quando sono entrato per la prima volta nello spogliatoio della prima squadra, lui mi si è seduto a fianco e mi ha detto che con i baffi, che allora portavo, sembravo suo zio. E’ un ricordo che mi piace, anche adesso quando mi salutano per strada così sorrido perché so da dove arriva. Ho scritto anche un libro tempo fa intitolato “Bella Zio”.
Dopo aver giocato per tanti anni come si affronta la vita lontano dal campo?
“Non è semplice perché abituato per 20 anni ad una routine, ad un allenamento quotidiano e costante, che secondo me è la parte più bella del nostro mestiere ovvero vivere lo spogliatoio, stare sul campo tutti i giorni manca. L’allenamento fa stare bene e troncare il tutto di netto non è semplice, la gestione di questi nuovi momenti diventa difficile. Ho avuto la fortuna di fare subito altro entrando in un mondo completamente diverso (quello della tv, ndr), l’ho affrontato quindi bene, ma ripeto, la quotidianità manca. Quando finisci di giocare a calcio solitamente pensi a fare l’allenatore o il procuratore o il direttore sportivo, ma mantenere l’aspetto fisico che hai sempre avuto è faticoso, si tende ad ingrassare. Ho fatto due maratone quando ho lasciato il pallone, l’ho fatto per mettermi alla prova. Star bene vuol dire fare palestra così che il muscolo bruci, ma se smetti del tutto vai in difficoltà”.
Raccontaci il momento più importante della tua carriera da calciatore e quello da commentatore.
“Un momento da calciatore è sicuramente il Mondiale 1982 vinto e giocato a 18 anni, indossare la maglia azzurra regala delle sensazioni pazzesche, ma c’è anche lo scudetto dei record con l’Inter. L’apice da commentatore sarà scontato ma è il Mondiale nel 2006 con la famosa frase “Andiamo a Berlino!” o l’Europeo nel 2021: sono stato fortunato ad avere l’onore di commentare partite così, cose che un cronista spesso si può solo sognare”.

Allenando ora i ragazzini, ci sono delle similitudini con le giovanili di una volta e quelle odierne? Oggi vogliono solo emulare o si mettono in gioco?
“Se l’esempio che vogliono emulare è positivo va bene. I ragazzi di oggi hanno bisogno di campioni: Zanetti, Maldini, Totti, Del Piero, sono degli esempi. I ragazzi di oggi vogliono tutto e subito io cerco di trasmettere loro il significato della parola fatica, perché giocare a calcio non è un sacrificio ma fanno fatica ad accettare un’esclusione o il venire sempre ad allenarsi. Ho allenato all’Atalanta giocatori che poi sono poi non per forza diventati grandi campioni, ma ora noto che alle prime difficolta mollano. Chi ha saputo resistere è ancora li. Anche i genitori devono aiutarli, perché spesso sono i primi a sbagliare negli atteggiamenti. Da piccolo io stavo 6 ore al giorno fuori casa, dopo scuola si andava all’oratorio o si giocava per strada o giocavo contro un muro col mio pallone. Oggi è tutto diverso per carità, ma ci sono ragazzi che si allenano troppo poco. I ragazzi di oggi sono svegli e più pronti di noi del passato, ma hanno meno voglia di far fatica”.