Articolo a cura di Samantha Cosentino e Davide Sardi
È inquietante pensare che possano esistere persone indotte addirittura al suicidio dalla condivisione non autorizzata delle proprie immagini o dei propri video intimi su internet.
Eppure, è l’amara realtà, dettata da un fenomeno purtroppo in crescita. Si chiama “revenge porn”, traducibile come “vendetta pornografica”, perché trasferisce la dimensione più intima di una persona sul web, ossia sul palcoscenico probabilmente meno riservato in assoluto.
La rete, infatti, tramite social network, app di messaggistica, siti e piattaforme di dubbia moralità, è capace di far visualizzare determinati contenuti a milioni di persone in pochi minuti e, per via di un meccanismo di diffusione sostanzialmente incontrollabile, non cancella praticamente nulla.
Le vittime di queste autentiche violenze, nella grande maggioranza dei casi, sono donne. I colpevoli sono soggetti senza scrupoli, spesso legati alle vittime da una precedente relazione finita male o quantomeno dal desiderio perverso di bullizzarle, umiliarle pubblicamente o ricattarle a scopo di estorsione. Insomma, le motivazioni di una simile condotta possono essere diverse ma, in ogni caso, incidono negativamente sulla “web reputation” – ossia la reputazione in rete – della vittima, con conseguenze che, in virtù del legame sempre più stretto tra il mondo fisico e quello digitale, arrivano a pervadere ogni aspetto della quotidianità.
In tale contesto, quindi, non è insolito che le persone colpite da simili attacchi, provino senso di colpa, vergogna e umiliazione, arrivando anche a sviluppare problemi di salute – quali ansia, depressione e stress post traumatico – o di natura sociale, come la chiusura in una forma di isolamento accompagnata da complicazioni nelle relazioni future. Le conseguenze, poi, possono estendersi dal singolo episodio – dato che la “vendetta pornografica” è purtroppo in grado di innescare molestie e stalking da parte di sconosciuti entrati in possesso dei dati diffusi – a problematiche sul piano sociale, in termini di diffidenza ed emarginazione, nonché in ambito lavorativo, col rischio di perdita di incarichi e difficoltà a trovarne di nuovi.
Un simile fenomeno fa parte del “volto oscuro” di internet che, tra tanti servizi e comodità, ha portato anche una serie di pericoli capaci di condizionare pesantemente la vita delle persone fino a metterla a rischio. Purtroppo, però, sembra ancora mancare un’adeguata consapevolezza di tali rischi e della necessità di proteggere maggiormente le proprie immagini, evitando di raccoglierle in situazioni “piccanti” e ricordando che, anche se mantenute riservate, potrebbero essere sottratte dai nostri dispositivi tramite i sempre più frequenti attacchi informatici. In tal senso, è piuttosto indicativa una ricerca effettuata da Nielsen su ragazzi e ragazze tra i 18 e i 27 anni, da cui emerge come la metà condividerebbe tranquillamente immagini private col proprio partner, evidenziando quindi un approccio piuttosto superficiale. Il problema, invece, è serio e lo conferma il fatto che il 25% degli intervistati abbia dichiarato di conoscere giovani vittime mentre il 4% abbia subito direttamente azioni di revenge porn. Si tratta di numeri significativi su cui occorre riflettere, considerato, peraltro, che la “vendetta pornografica” costituisce un reato – introdotto dal cosiddetto Codice Rosso (ossia la legge n.69 del 2019) all’articolo 612-ter del Codice Penale – da cui possono derivare pene detentive da uno a sei anni e sanzioni da 5mila a 15mila euro, con aggravanti se le azioni sono compiute ai danni del coniuge, del partner attuale o di uno precedente.
Da tale quadro emerge che la consapevolezza dei rischi e la prudenza nelle interazioni online, laddove spesso non si ha piena certezza dell’identità degli interlocutori, sono le prime misure difensive che troppo spesso sembrano sfuggire. Nell’ambito di un approccio collettivo al problema che deve coinvolgere istituzioni, organizzazioni e cittadini, è quindi essenziale educare – soprattutto ma non esclusivamente – i giovani al rispetto della parità di genere affinché si possano creare importanti ostacoli alla diffusione di immagini e video intimi. Se li riceviamo, dobbiamo evitare di farli circolare a nostra volta, eliminandoli e segnalandoli alla Polizia Postale. Se siamo vittima di queste azioni, invece, dobbiamo ricordare di non essere soli e fare affidamento, oltre che sulle persone vicine, anche sulle autorità competenti. Si tratta, in modo particolare, del Garante per la protezione dei dati personali a cui si possono rivolgere – tramite l’apposito form sul sito – coloro che temono che immagini intime possano essere diffuse senza il proprio consenso. Il Garante, laddove ci siano i presupposti normativi, adotterà un provvedimento, che sarà notificato alle piattaforme coinvolte al fine di contrastare la temuta diffusione. Laddove si registrino, poi, altre condotte penalmente rilevanti, come l’arrivo di minacce o di richieste estorsive, può essere aggiunta anche la tutela della Polizia Postale. In un simile contesto, chiaramente, tutti dobbiamo comprendere quanto la tecnologia possa e debba essere un aiuto e non uno strumento per generare nuove forme di violenza. Ed è soprattutto in questo periodo dell’anno, in cui vengono organizzate numerose iniziative per il contrasto della violenza sulle donne, che questo messaggio deve circolare con ancora maggiore forza e convinzione.
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