Carlo Pernat: la mia vita e le moto

Carlo Pernat non ha bisogno di presentazioni, soprattutto per gli amanti delle due ruote. Storico team manager dell’Aprilia negli anni ‘90, scopritore di talenti come Valentino Rossi e Max Biaggi, dopo una breve parentesi come responsabile marketing del Genoa torna nei paddock diventando procuratore di Capirossi, Iannone e tanti altri campioni. Abbiamo avuto il piacere di potergli fare qualche domanda sulla sua carriera e su cosa serva per arrivare al top in questo sport, sia come pilota che come manager.

Nel suo libro “Belin, che paddock” ha raccontato storie e aneddoti nel mondo delle due ruote: cosa le ha dato la MotoGP a livello umano?

È sempre stata la mia passione, quando vivi facendo quello che ti piace hai risolto il 90% dei tuoi problemi esistenziali. A me ha dato quello che volevo: girare il mondo, la possibilità di inserirmi nel mondo motociclistico e vivere di ciò che amo. Ma soprattutto girare il mondo. Io sono una persona curiosa e andare in così tanti Paesi per quarant’anni significa vedere e capire il mondo, parlare quattro lingue, stringere migliaia di amicizie: insomma, avere una marea di cose che in pochi hanno. Ho fatto la mia gavetta, come tutti. Le moto mi hanno dato tanto, al di là della professionalità e del lavoro. Devo molto alla MotoGP e spero che anche lei debba molto a me, così siamo pari!”

Qual è la sua caratteristica che le ha permesso di poter gestire in modo eccellente i suoi piloti?

La cosa principale è il fattore caratteriale, essere molto estroversi. Se uno ha un carattere ombroso e non è brillante, secondo me, questo lavoro non lo può fare. Devo dire che io sono molto camaleontico, mi adeguo sempre agli altri e non faccio adeguare gli altri a me. Ho gestito nello stesso momento Valentino Rossi, Biaggi, Capirossi, Simoncelli: mi sono sempre adattato a quello che volevano loro, perché alla fine i protagonisti sono i piloti. Attorno devono avere tranquillità, serenità e soprattutto amicizie, al di là della professionalità. Insomma, questo è l’attributo principale che dovrebbe avere un manager: essere camaleontico. È una caratteristica che tu hai o non hai. Io ce l’ho fortunatamente!

Ha incontrato tanti piloti nel corso della sua carriera: quanto è importante il benessere fisico e mentale per un pilota professionista? Ha visto piloti con del gran talento perdersi a causa della mancanza di equilibrio tra le due cose?

Assolutamente sì, la cosa più importante è il talento, quello non si compra nè si vende: è la prima cosa che vedi in un pilota. Il talento però rappresenta il 50% del professionista, per il resto bisogna avere un’incredibile tranquillità mentale. È come se loro avessero un microchip in testa: se ci finisse un capello dentro salterebbe tutto il computer. Semplicemente devono vivere come piace a loro. Innanzitutto vivono di quello che gli piace: per loro è un mestiere, ma anche un divertimento. Diciamo che ho visto tanti piloti talentuosi perdersi per questioni mentali. Uno su tutti era Iannone, talento incredibile, forte quanto Marquez, ma non aveva la forza mentale dello spagnolo. Ultimamente, al di là del fisico che devi per forza allenare, i piloti lavorano molto sulla concentrazione. In gara la concentrazione conta il 70%, perché le situazioni cambiano da giro a giro, da curva a curva e quindi se tu sei concentrato, liscio e fresco sulla moto hai qualcosa in più degli altri. Fermo restando che il talento serve sempre: piloti costruiti non ne ho mai visti“.

Cosa differenzia un pilota “normale” da un campione?

Hanno tutti la passione della moto, su quello non ci piove. Chi comincia da piccolo con le minimoto, chi dopo come Biaggi che ha iniziato a 16 anni. Oltre alla differenza di talento, ci sono altre due cose molto importanti: in primis la testa e poi la famiglia. La famiglia e le persone con cui vivono hanno una grande influenza su di loro, quindi io guardo molto a quello”.

Qual è il ricordo più bello che ha della sua carriera?

Ne ho avuti tanti, ho vinto 13 mondiali piloti. Se devo dir la verità, il primo mondiale è quello che non si dimentica mai: quello di Gramigni nel ‘92 sull’Aprilia 125. Una casa piccola come l’Aprilia e battere tutti gli altri è stata la prima vera soddisfazione. Una vittoria in un’azienda grande, come Honda o Yamaha la vivi in modo diverso perché hanno già un sacco di titoli appesi sul muro. Era il primo mondiale, in una casa che faceva biciclette e che si era trasformata da poco in una casa motociclistica: quando vinci così ha un valore in più“.