sabato, Aprile 26, 2025
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Sindrome di Medea: cos’è e perché si verifica

Il termine “sindrome di Medea” (anche nota come “complesso”) è stato utilizzato per la prima volta dallo psicologo Jacobs nel 1988 per indicare il comportamento di una madre – che, nel mito greco, ricalca gli atteggiamenti di Medea, figlia della maga Circe, dalla quale eredita i suoi poteri magici, nei confronti dei figli – che mirava a distruggere il rapporto fra il padre (nella mitologia Giasone, ndr) e i figli a seguito della separazione conflittuale della coppia.

Non di rado la sindrome di Medea si sviluppa in maniera inconscia e non si traduce in azioni esplicite. Talvolta, invece, la comparsa del complesso è conscia e visibile anche nei comportamenti e nelle azioni.

Dal mito alla realtà: la storia di Medea

Nonostante si abbia notizia di diverse versioni del mito, quella da cui origina il complesso di Medea è quella del tragediografo greco Euripide.

Secondo questo racconto, Medea – abbandonata dal compagno Giasone per un’altra donna, Iole – si sarebbe infervorita talmente tanto contro di lui da decidere di vendicarsi. Peccato che la sua vendetta abbia coinvolto anche i loro figli.

Accecata dall’odio fino all’inverosimile, Medea arrivò, dunque, a mettere da parte anche la propria maternità, patto naturale di protezione nei confronti dei figli, finendo per ucciderli in quanto discendenza e sangue di Giasone. Non mancando, però, di baciarli prima più volte.

Le madri Medea sono afflitte da gelosia patologica. E, nel trattare la gelosia come un sentimento, si manifestano in maniera importante sia il suo carattere intenso che la sua progressiva intensificazione. Se la si considera, invece, come una passione, si finisce per ritenere che il geloso non agisca, ma piuttosto subisca la gelosia. O, più precisamente, la subisca prima di agire.

Un complesso di alienazione genitoriale

Di fatto Jacobs metaforizza l’uccisione dei figli, definendo – come abbiamo già avuto modo di anticipare – “complesso di Medea” il comportamento materno finalizzato alla distruzione del rapporto tra padre e figli dopo le separazioni conflittuali. In questo modo l’uccisione diventa simbolica e ciò che si mira a sopprimere non è più il figlio stesso, ma il legame che quest’ultimo ha con il padre.

Secondo numerosi studiosi, «l’abuso emotivo nei confronti dei figli inizia quando, durante una separazione conflittuale, gli ex coniugi coinvolgono i propri figli in una “gara di lealtà” (Byrne, 1989) forzandoli a scegliere il genitore preferito, a parteggiare, a formare una nuova famiglia chiusa con uno solo dei genitori. Nei soggetti di età compresa tra i 9 e i 12 anni questo fenomeno è stato definito “allineamento del minore con un genitore” (Wallerstein e Kelly, 1980). In questo scenario, subdolamente i genitori trattano come confidenti i figli costringendoli ad una innaturale scelta, con la finalità di escludere l’ex coniuge dalla loro vita. Le madri sono genitori “alienanti” molto più frequentemente di quanto lo siano i padri (Gardner, 1988)».

Purtroppo, l’esposizione ripetuta ad abusi in età evolutiva in questo senso può determinare la comparsa di alcuni meccanismi di difesa propri della patologia borderline. Tra questi ricordiamo l’onnipotenza, la svalutazione e la dissociazione, cui si aggiungono anche oppure altri effetti a lungo e breve termine, come aggressività, egocentrismo, futuro carattere manipolatorio, comportamenti autodistruttivi, falso sé, disturbi alimentari, depressione e scarso rendimento scolastico.

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